Arrendetevi!

Roberto Beccantini9 maggio 2018

Higauin in panca e Mandzukic in campo: ma «questo» è matto. Khedira e Pjanic camminanti, Douglas Costa metà terzino e metà ala, Dybala pascolante al largo, Cuadrado su Calhanoglu: complimenti, mister. E il Milan raccolto, come e meglio della Juventus, suoi gli unici dardi: di Cutrone e Suso, smorzati da Buffon. Così nel primo tempo della finale di Coppa Italia. Un primo tempo di esasperante lentezza, pieno di nebbia, di fumo.

Poi cominciò il secondo. E la Juventus, che nell’area del Diavolo non si era mai avventurata, come se fosse un ufficio chiuso per ferie, ha cominciato a entrarci. Donnarumma ha 19 anni e si chiama Gianluigi come Buffon, che ne ha 40. Alzi la mano chi poteva immaginare che la storia sarebbe dipesa proprio da loro, soprattutto da uno di loro?

Perché sì, il risultato finale è stato: Juventus quattro, Milan zero. E se tre gol sono venuti da calci d’angolo, all’oscuro della trama, almeno due pesano sui guanti del figlioccio di Raiola che su Dybala, viceversa, era stato prezioso, reattivo. Non il primo di Benatia, con un contatto Calabria-Matuidi che il Var cancellava ai dubbi di un pigro Damato. Alludo al secondo, di Douglas Costa, e al terzo, ancora di Benatia. Errori clamorosi, fatali. Senza l’attenuante della casualità che si può concedere, almeno in parte, all’autogol di Kalinic. Già che ci siamo: in Europa, la maldestra zampata di Matuidi, sul 3-0, avrebbe regalato al Diavolo l’onore delle armi. Ma siamo in Italia: e allora, palo.

E così, quarta Coppa Italia consecutiva e, salvo cataclismi, ennesima doppietta coppa-campionato. Hai voglia di dire che per un tempo più cinque minuti il Milan di Gattuso aveva giocato alla pari. Non escludo che già da domani ricominci il dibattito su Allegri sì o Allegri no. A un lettore è venuto in mente il colorito imperativo di Beppe Grillo: arrendetevi!

Quanto Costa

Roberto Beccantini5 maggio 2018

Si sapeva che la Juventus fosse in riserva. Si era fatta imprigionare dal Napoli e aveva sofferto persino l’Inter in dieci. Non si sapeva, viceversa, che Buffon e Allegri le avrebbero tolto anche quella poca benzina che aveva. Buffon, con un erroraccio che propiziava il rigore di Rugani su Crisetig, poi trasformato da Verdi (a proposito: nemmeno 3’20″ di Var sono riusciti a cambiare il giallo in rosso, come Irrati avrebbe dovuto, Irrati dopo Orsato; fuoco alle polveri). Allegri, «arrestando» Douglas Costa per un tempo.

In Italia, con la Signora, gli dei sono meno schizzinosi che in Europa. E allora: dall’autogol di Skriniar su cross di Cuadrado all’autorete di De Maio su cross di Cuadrado. Dopodiché, Douglas Costa. Le sue sgommate, le sue scintille, le sue rabone. L’hombre del partido, come già contro la Sampdoria. Assist a Khedira, la cui spintarella a Keita pareggia quella-da-rigore-più-rosso di Keita a Cuadrado in avvio di ripresa. Assist a Dybala. Sul secondo gol, va registrata la complicità di Mirante, fin lì – con Verdi – uno dei migliori.

Il Bologna di Donadoni ha fatto la sua partita e, sull’uno pari, aveva addirittura colpito un palo con Kraft. Non c’era la Juventus, in campo. C’era una squadra che credeva di esserlo. Gli avversari, tosti, non ci sono cascati. Fino, almeno, alla staffetta tra Matuidi, pasticcione, e Douglas Costa, letale. Vi raccomando la formazione di Allegri: Asamoah centrale di sinistra, Alex Sandro ala, Barzagli nel cuore del fortino: un biglietto della lotteria.

Marchisio ha acceso piccoli falò, Higuain pensa al Mondiale, al lavoro sporco che, per essere titolare, dovrà dedicare a Messi e allora accetta di vivere di briciole. Dybala, lui, giochicchiava tra le linee, senza arte né parte. Il gol è stato un attimo: bello, ma isolato. Che è poi il riassunto del Dybala attuale.

Tu chiamale, se vuoi, emozioni

Roberto Beccantini2 maggio 2018

Ad Anfield 5-2, all’Olimpico 2-4. Morale: 13 gol in due partite, Liverpool in finale e Roma a testa alta. La Roma ha dato il massimo. il Liverpool ha ricavato il massimo dall’oretta di martedì scorso, quando il «due con» (Salah, Mané più Firmino) giocò uno straordinario calcio «parziale», il calcio che, palla al piede, esalta Klopp: palla agli altri, lasciamo perdere.

Dall’erroraccio di Nainggolan alla doppietta di Nainggolan, ci sono stati la zampata di Mané, l’autogollonzo di Milner, la capocciata di Wijnaldum imbeccato da Dzeko, il palo di El Shaarawy, il gol di Dzeko. Secondo i puristi, un altro sport. Ma la Champions è anche questa, assalti all’arma bianca, ingorghi esilaranti, cuore e stampelle oltre l’ostacolo.

Dal mani-comio di Marcelo a quello di Alexander-Arnold. Ecco: la sua parata sì, sarebbe stata da rigore, molto più di quello poi concesso agli sgoccioli per il braccino di Klavan. Senza Var, non c’è santo che tenga. Ad Anfield il terzo gol dei Reds era in fuorigioco (come invece non lo era Dzeko, a tu per tu con Karius) e quando il totale è 7-6 le pagliuzze diventano travi. Si cambi pure il sarto (Collina), ma ho paura che non basti: sull’uso delle braccia la spinta innocentista arriva soprattutto da Boban.

Rimontato il Barcellona di Messi, Di Francesco stava per ribaltare il Liverpool. La sua Roma vive di sprazzi, di emozionanti vertigini, più da Europa che da campionato. Dzeko ed El Shaarawy sono stati i più efficaci, anche se non così devastanti come il Salah dell’andata. L’egiziano si è consegnato al fuorgioco di Manolas e Fazio. La Roma ha spinto molto a sinistra, ha avuto poco da Schick e Florenzi, ha reagito alla tensione capace di contagiare persino guerrieri come Radja.

Il Liverpool è una grande mezza squadra. A Kiev si misurerà con il Real Madrid. Nel 1981, a Parigi, lo fregò sul più bello.